Due migranti del Mali sono morti in un incendio in una baraccopoli alle porte della città di Foggia. Baraccopoli nella quale vivevano tra i trecento e i cinquecento migranti, quasi tutti africani. Impossibile ovviamente fare censimenti precisi perché in una baraccopoli come quella il turn-over è altissimo e molti, senza documenti, preferivano essere invisibili. Con buone ragioni visti gli ultimi sviluppi in materia di immigrazione.
Gli abitanti di quella che veniva definito il “Gran Ghetto” lavoravano in gran parte nei campi di frutta e verdura dei dintorni, probabilmente per salari infimi come ci insegnano le cronache di questi anni. A tutti conviene il silenzio: ai migranti soprattutto che probabilmente sono clandestini e dunque “deboli”, in condizione di non denunciare. E ovviamente conviene anche a chi li fa lavorare.
Il “Gran Ghetto” ufficialmente esiste dal 2012, ma gli abitanti della zona sanno che c’è da molti più anni. E sanno anche che, nonostante lo smantellamento forzato, gli incendi, la resistenza e i morti si riformerà da qualche altra parte, sempre nella zona. Perché i prodotti dell’agricoltura crescono e hanno bisogno di chi li raccolga, perché questi prodotti sono una parte dell’economia locale, perché il vantaggio di lavoratori “deboli” è qualcosa alla quale si fa fatica a rinunciare.
Insomma, è la nostra società a produrre baraccopoli come il “Gran Ghetto”, è la nostra mancanza colpevole di una politica di accoglienza seria che disinneschi tutti gli interessi che stanno alla base della nascita di questi agglomerati.
Baraccopoli. Ecco non si pensi che le baraccopoli esistono solo in Africa. Sono qui, ci circondano. Assediano una popolazione schizofrenica che a volte le vorrebbe vedere sparire (quando sono vicini alla nostra vista e alle nostre proprietà), e a volte le desidera come un serbatoio utile di manodopera a basso costo.
Raffaele MASTO – Buongiornoafrica – 03.03.17