A Milano abbiamo bisogno non solo di essere Chiesa “in uscita”, ma anzitutto di lasciarci coinvolgere “in entrata” da altri modi di essere cristiani
A dispetto delle critiche anche feroci che già circolano in rete, tutte intra-cattoliche e relative al presunto basso profilo del nuovo arcivescovo di Milano rispetto ai predecessori (ma dove sta scritto che tutti i vescovi cristiani debbano essere un Carlo Maria Martini?), trovo che la prima iniziativa di Mario Delpini sia effettivamente molto azzeccata – e pure coraggiosa.
Il neo-reggente della Chiesa ambrosiana ha infatti indetto un “Sinodo minore” di tutta la diocesi, dedicato a «La Chiesa dalle genti»: in pratica un percorso di riflessione e studio che dovrebbe impegnare tutte le componenti ecclesiali locali sul tema dell’integrazione tra cattolici di lingue e culture diverse; ormai gli immigrati sono numerosi, molti tra loro sono cattolici o almeno cristiani: come vivere la fede nelle parrocchie sempre più multietniche? «Il percorso avviato dall’arcivescovo – recita l’annuncio – nasce dall’esigenza di aggiornare l’azione pastorale alla luce dei cambiamenti sociali prodotti dai flussi migratori».
Attenzione: non si parlerà di accoglienza dei migranti o carità verso gli stranieri; ma di evitare «due rischi, l’uno speculare all’altro: da un lato, che i cristiani migranti, una volta giunti a Milano, debbano pregare e celebrare solo tra di loro, per gruppi etnici o linguistici; dall’altro, che siano i cristiani “stranieri” a doversi adeguare al modo di essere Chiesa preesistente».
La proposta mi piace molto, non solo perché già in passato ne avevo scritto anche qui a proposito della fede delle badanti di religione cristiana. Ma pure perché purtroppo riscontro (e anche di questo abbiamo già parlato) una incredibile chiusura, un ripiegamento su se stessa della Chiesa in cui vivo – appunto quella ambrosiana -, che invece di solito era nota per essere una di quelle più “avanzate”, se non “profetiche”.
I cristiani lombardi (e questo non è certo colpa del povero Delpini…) non sono affatto “in uscita”, anzi mostrano una tendenza a mantenere lo status quo, a considerare la religione come difesa del loro discreto e piccolo borghese benessere, cosa che – tra l’altro – contrasta clamorosamente con la loro nota intraprendenza economica e la disponibilità all’innovazione. Sto ragionando come sempre per categorie generali, perché ovviamente (e per fortuna) le eccezioni di singoli e comunità ci sono, però mi pare una tendenza maggioritaria.
Me la segnalava anche il parroco di una popolosa città dell’hinterland milanese: proprio i “più vicini” alla chiesa (e stavolta lo scrivo minuscolo intenzionalmente) appaiono anche i più ottusamente legati a un pensiero di gretta conservazione che non è affatto cattolico: nel senso anzitutto di universale, e poi anche di generoso e fraterno. Ben azzeccata dunque la multietnica cura Delpini: a Milano abbiamo bisogno non solo di essere Chiesa “in uscita”, ma anzitutto di lasciarci coinvolgere “in entrata” da altri modi di essere cristiani. Per svecchiarci; per metterci in questione; anche per far ripartire una fiducia nel futuro che ci farebbe un gran bene: non solo in quanto credenti.
Roberto BERETTA – Vino Nuovo – 07.12.2017