E se, nella fase due, le nostre comunità fossero più forti – nel coltivare relazioni e valorizzare le persone – perché capaci di fare i conti con la fragilità?
Due immagini, tra le altre, mi porterò dietro, tra i ricordi del periodo del lockdown: un pugno di aeroplanini di carta e un pugno di lacrime.
Gli aeroplanini li trovavo, a volte, quando uscivo sul terrazzo. All’inizio non capivo da dove venissero e cosa ci facessero lì, poi una volta, guardando in su, ho visto un nonno che, dall’ultimo piano, mi faceva dei segnali con le mani. Allora ho guardato giù, e ho visto i suoi nipotini che giocavano in cortile. Allora ho capito che il nonno – recluso in casa dalle regole dell’emergenza sanitaria e da severissimi figli terrorizzati dalla possibilità che si ammalasse – faceva quel gioco per loro, i bambini. Così ho cominciato a lanciarli giù, cercando di indirizzarli proprio lì, dove stavano giocando. Cosa che ho scoperto essere molto difficile, nonostante la perizia quasi ingegneristica con cui gli aerei erano fatti.
Il gioco è andato avanti per qualche giorno: il nonno lanciava, io rilanciavo, i bambini raccoglievano, ridevano e si sbracciavano per lanciare saluti al nonno, lassù. E il mio terrazzo non era più un ostacolo, ma solo un luogo di sosta. Continua nell’ ALLEGATO
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